giovedì 25 settembre 2008

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Racconto di Catia Simone: Il risveglio

“…Il trillo della sveglia del cellulare mi fece sobbalzare dal letto. Spensi quel cicalio odioso con rabbia e aprii gli occhi…”. Questo il mio sogno perpetuo da circa quindici lunghi anni.
Da quando, un giorno di aprile - in una mattina di primavera, qualcuno ha pensato bene di non fermarsi a quel maledetto stop di Via Roma, buttando in aria me e la mia vita di tranquilla e spensierata di adolescente milanese. In verità i miei occhi ormai sono due fessure inespressive da troppo tempo. L’azzurro delle iridi tende ormai al grigio. Il bianco della pupilla esangue, vacuo. Il mio corpo giace inerme e invecchiato da una vita che non ho vissuto e che mi scorre addosso impotente. La mia bocca boccheggia come quella di un pesce in un acquario, conferendomi un’ espressione idiota e grottesca.
Per il resto respiro – dunque - vivo. Il mio cuore pompa ancora sangue in questo inutile motore. E ho ancora le mestruazioni.
Ma loro non mi credono. Vedo le loro facce rassegnate e infastidite da questo bamboccio di carne morta a cui devono dare un senso. Li ascolto, nel mio silenzio obbligato. Mio padre non ha retto al dolore ed è mancato un paio d’anni fa. Da un giorno all’altro non l’ho più visto. Arrivava tutte le mattine con il vassoio della colazione: la caffettiera ancora calda e borbottante, due tazzine, succo d’arancia, pane e marmellata. Era il nostro rituale per cominciare la giornata. L’odore del caffè inebriava il mio olfatto. Mangiava e gustava il tutto, parlandomi dei suoi impegni della giornata.
Aveva chiesto il prepensionamento, pur di starmi vicino, abbandonando l’ufficio alla Stazione Centrale dove svolgeva la mansione di dirigente di reparto. E mentre parlava mi teneva la mano, scossa da un lieve tremore. Mi leggeva i quotidiani tenendomi aggiornata sugli avvenimenti più importanti. Ricordo un giorno in cui rimase incollato davanti alla tv, per tutta la giornata, per assistere ad uno strano ed inquietante decollo aereo su due grattacieli che divennero una grossa polvere di fumo e calce. E vidi mio padre ancora più smarrito e la sua mano ancora più tremante.
Mia madre ,invece, è una donna forte, fiera. Adesso è lei che mi dà il buongiorno. Senza inutili smancerie. Anche quando è rimasta vedova, non ha mai pianto una lacrima davanti a me. Solo un paio d’abiti neri per un paio di mesi. Comunicandomi la notizia ponendo una foto di suo marito in una cornice d’ argento sul mio comodino, accanto a quella di Padre Pio. La sua presenza si alterna a quella delle due infermiere, Irina -polacca che mi assiste da cinque anni e Roberta, una deliziosa ragazza pugliese.
Mia madre… ormai per lei non sono altro che una formalità quotidiana da espletare, un’inevitabile abitudine. Glielo leggo negli occhi. Non mi guarda neanche più. Ormai per lei faccio parte dell’arredamento, un oggetto polveroso come questi mobili in noce chiaro.Come la foto di Padre Pio a cui tutte le mattine si rivolge nella speranza che questa lenta agonia termini per sempre. Liberandola da un fardello da piangere finalmente in mezzo a cipressi e pietrisco, nella quiete della sua solitudine.
E mi unisco alla sua preghiera anch’ io, mentre guardo quel pezzo di cielo che scorgo dalla finestra, vivo e mutabile. Perché è vero!Non son altro che un feto difettoso da abortire e l’aria di questa camera, un liquido amniotico dove galleggio ormai da troppo tempo. E’ tempo di finirla con questa suggestione che ridicolizza me agli occhi del mondo.
Vorrei… vorrei respirare questo tiepido soffio di vita per l’ultima volta e liberare lei da un’afflizione soffocata da tanti giorni di convivenza forzata con una morte apparente.
Vorrei…vorrei dare il giusto tributo alla vita morendo, magari domattina,con quel cicalio odioso della sveglia che per un attimo mi desterebbe giusto il tempo per godere del movimento del mio corpo… girare la testa… allungare la mano, e spegnere per sempre questo ignobile risveglio.

15 commenti:

api ha detto...

aiuto.
meraviglioso.

Catia ha detto...

Grazie Pia, non sai quanto mi fai felice. Ed è amore anche questo, maledetto amore!

Anonimo ha detto...

Eccomi, ben scritto e commovente, sei tu Catia Simone?
La tua impronta c'è, parla l'anima immedesimata in un tragedia, che dovrebbe far riflettere la nostra calsse politica.

Anonimo ha detto...

Catia, è su questo racconto che desideri un commento?
Ecco fatto:
La vita, la morte, l'uomo e la donna, o quel che ne resta (dell'uomo e della donna). Il racconto è "volgare", perchè in poche righe richiama, semplificando, un evidente fatto reale (e non voglio assolutamente scriverne il nome)e il grave peso delle considerazioni.
Ho visto, nelle mie permanenze negli ospedali, ragazzi e ragazze mutilati da malattie e incidenti; alcuni di loro ancora lucidi e presenti, altri invece no: un pacco fra le lenzuola. Anch'io come l'autore del racconto,cioè tu, ho immaginato i pensieri e riflettuto sul senso della loro vita. Un niente, forse, ma che nella proiezione sugli altri è vita, a tutti gli effetti è vita. Non so. Non sono una scrittrice, sono semplicemente un' artista e una persona che conosce sofferenza e dolore. Non scriverei mai un racconto così come hai fatto tu; affronterei quel tema ricorrendo alla fantasia. E lo farei in modo da colpire i sedimenti della memoria collettiva. Il padre crede (in buona fede)ma non abbastanza e infatti cede; la madre (le donne sono abituate al dolore e quindi hanno più praticità) vorrebbe che l'incubo, per il bene della figlia e suo, finisse. Lo Spirto (religioso) e la Scienza (conoscenza), di fronte allo stesso problema: un'anima che forse vive in un corpo che è quasi morto. In una società poverissima, povera povera, priva di mezzi, la risposta sarebbe semplice: sia fatta la volontà di dio. In una società che fa della comunicazione la sua essenza (c'è il riferimento all'11 settembre)quella "vita" è un pacco. Sacrificio a dio? E nessuna pietà per la vittima?
Non ho risposte, e come scrive Rossella in Letteratitudine, le mie parole sono solo una "pugnetta". Aggiungo,infine, che eviterei, fin dall'inizio l'accanimento e lascerei che il sonno coprisse, come un manto selvatico, quell'esile respiro.
Grazie a te, buonagiornata, Miriam Ravasio

Catia ha detto...

Cara Miriam, ti ringrazio per aver letto il mio racconto. Lungi da me dall'aver pensato ad una ragazza tristemente nota per un fatto di cronaca. Sono semplicemente partita da un incipit che ho voluto modificare per raccontare, in poche righe, la storia di una ragazza e di una sofferenza atroce. Non intendevo offendere nessuno, tantomeno un dolore così grande. Posso assicurarti che il dolore lo conosco anche io, sotto altre forme, e so cosa vuol dire la parola sofferenza. Però penso, senza ipocrisia, che affrontare una situazione così drammatica sia difficile ed ovvio che, in senso letterario, ho marcato alcune situazioni e dato un'identità forse un pò paradossale: un padre debole e vinto dal dolore e una madre, vinta anche lei dal dolore in maniera più cinica e realista.
E' il punto di vista di una ragazza inferma, la cui vita è espressa dal soffio di un respiro che vorrebbe spengere per sempre.
Tutto qui.
La volgarità a volte è negli occhi di chi legge, se permetti.
Con stima
Catia

Vlad ha detto...

Brava Catia. Mi sembra bello ed efficace. Anche emozionante, almeno per una persona che, senza teorizzare troppo, col dolore e coi sentimenti che l'accompagnano si è già misurata.
Sul teorizzare, poi, rimando ad un mio commento di qualche giorno fa:

‘La dichiarazione di Miriam conferma quanto sostengo da sempre: esiste uno spartiacque preciso tra chi 'crea' e chi 'ne parla', ed entrambi sono ruoli fondamentali. Del resto, se non ci fosse chi 'crea', chi 'ne parla' non saprebbe cosa fare. Ma in qualche modo è vero anche il contrario: se non se ne parlasse, non avrebbe senso creare.
Ora piazzo un altro post con incipit e vi auguro una buona notte.

Solo in rarissimi casi si è osservata una padronanza di alto livello su entrambi i versanti.’

baci

Catia ha detto...

Grazie Vlad per i tuoi interventi puntuali ed efficaci!

api ha detto...

Questo racconto è tutto tranne che volgare, non né triviale né superficiale, nemmeno una 'paraculata'.
Catia, come scrittore, si è ispirata a una situazione generale, che non è certo nata con i casi noti all'opinione pubblica, ma esiste da quando la scienza prolunga la vita in modo innaturale.
Catia è partita da una nota iniziale un po' stonata e ha scelto una storia, impostandola su un punto di vista molto coraggioso, quello della 'vittima'.
Ha utilizzato la prima persona, si è tuffata con l'anima in tutte le sofferenze e le umiliazioni che immaginiamo possa provare un essere umano in una situazione del genere, ammesso che le provi. Nessuno lo saprà mai.
Non credo che un autore si dovrebbe giustificare per il tema che ha scelto, o meglio, che gli si è calato di fronte.
Credo dovremmo invece parlare di efficacia nell'utilizzare lettere e parole come note per riuscire ad avvolgere il lettore con una musica piacevole e toccante.
La tecnica è impeccabile, la musica avvolgente: per quanto mi riguarda il racconto andrebbe presentato al critico della tua scuola di scrittura.
Bravissima.

buona notte a tutti. vado a cucinare.

Anonimo ha detto...

Il mio non è un pare tecnico, ma emotivo. Ti dico perciò quello che ho provato "a pelle" dopo averlo letto.
Hai scritto un bel racconto Catia. In alcuni punti è veramente toccante. Il fatto che tu abbia suscitato tali e tanti commenti, è la conferma che hai smosso qualcosa dentro i lettori. E se lo scrittore smuove, vuol dire che ha colpito, almeno un po', nel segno. Con questa storia credo che tu sia riuscita a toccare anche un argomento importante di cui si parla da tempo e che da tempo fa discutere: l'eutanasia, ma non mi addentro alla questione.
Unico appunto, se di appunto si può parlare, visto che sempre di racconto si tratta: credo che i genitori del tuo racconto siano troppo "arrendevoli"; nella realtà, nella maggior parte dei casi un genitore si prodiga con anima e corpo per permettere ad un figlio di sopravvivere un po' di più, perchè per loro è comunque una presenza, viva, che amano. Il malato, soprattutto se pensante come il tuo personaggio, si accorge dell'amore che ha intorno, e questo forse è uno dei motivi per cui vive più a lungo: perchè si sente amato e se pur sofferente quanto vuoi, lui si nutre di quel poco che riesce a percepire.
Questo è quello che ho capito da un'esperienza avuta in famiglia, dove io ero il figlio sano, a parti invertite, quindi, rispetto al tuo racconto.
Non voglio dilungarmi, i commenti troppo lunghi va a finire che annoiano.
Come avrai capito, dai miei racconti o da altri interventi, io cerco sempre cerco il lato positivo delle cose, per cui mi risulta quasi impossibile pensare alla morte come soluzione di situazioni negative.
Per cui chiudo con una massima del nostro amico Gibran:
Se la vita non fosse stata meglio della non vita, nessun essere sarebbe esistito.

Ancora complimenti.
Roberto

Anonimo ha detto...

Non ci sei ma non sei lontana. Mi riferisco solo alla tecnica. Riscrivilo dieci volte e ci arrivi, tutti gli scrittori riscrivono, non prendertela. Lo dico solo nel tuo interesse (se fai sul serio, altrimenti va bene così). Se te la prendi non ti dirò mai più nulla. rex

Anonimo ha detto...

Per chiarezza: manca il ritmo, il problema è soprattutto questo. E'... disarticolato. rex

Catia ha detto...

Rex tu puoi dire, come gli tutto quello che vuoi. Le critiche servono a migliorsi e per me scrivere è una cosa molto seria in cui credo tantissimo.
Quindi grazie.

api ha detto...

Caro Ben,
hai ragione, e hai torto.
Ho provato sulla mia pelle la malattia lunghissima di mio padre e quella meno lunga, ma comunque dolorosissima di mia madre.
Non voglio giustificare l'atteggiamento della madre, ma è credibile.
La figlia è in stato vegetale da quindici anni. sono tanti, quindici anni.
già dopo 5 anni, 365 giorni per 5, sei spossato, sei esausto, sei incazzato nero con la vita, con chi sta sopra di tutto e ti stanchi di lottare. A tutto ci si abitua, purtroppo. e dopo quindici anni, roberto, secondo me non hai più energie.
Comunque, brava Catia e tanto di cappello.
Credo che questo plop possa risultare utile un po' per tutti, me lo auguro davvero. è nato per quello...

Catia ha detto...

Evviva Pia, che ha colto il senso del racconto, grazie all'esperienza personale. Basta con le ipocrisie e le balle che ci raccontiamo tutti i giorni. Un dolore continuo costante porta allo sfinimento e a ciniche conclusioni. Come nel caso della madre nel mio racconto.

Anonimo ha detto...

Ciao Splendide,
voi scrivete di giorno, mentre io nello stesso tempo mi posso permettere solo qualche battuta. Arrivo alla replica.

Credo che in questo caso non si possa parlare di torto o di ragione, e capisco benissimo, Api, il tuo punto di vista, credimi. Si è sfiniti e, aggiungo, frustrati dall'impotenza.
Non penso nemmeno, Catia, che si possa parlare di ipocrisia (non nel mio caso, almeno).
Si parla e si sa in base all'esperienza vissuta.
Io in questo momento penso ad un ex-calciatore che respira e parla attraverso delle macchine. Lui ha deciso di mettere la sua sofferenza al servizio degli altri,
per quelli che, pur malati come lui, in questa abominevole situazione sono stati ancora più sfortunati di lui, e per quelli che verranno, per dare un senso alla sua non vita. E i suoi cari lo stanno aiutando in questo.

Un abbraccio multiplo.
Roberto

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