sabato 20 settembre 2008

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Incipit: racconto di Catia Simone

E’ appoggiata al banco, è sola e beve una spremuta. Per terra vicino alle gambe ha una borsa di pelle nera e non so per quale motivo vengo attirato da questo particolare.
Mi piace osservare la gente, penso mentre la guardo. E’ quello che faccio tutti i giorni, tutte le mattine in questo bar in cui mi rinchiudo dalle otto di mattina fino a mezzogiorno.
E come tutte le mattine desto il mio torpore notturno con una doccia fredda. Sì fredda, cantando “maledetta primavera”. Mi rado, indosso il mio completo blu, una camicia azzurra e una cravatta regimental (ne ho una collezione infinita).Oggi ho scelto quella bordeux a righe senape e blu, quella del mercoledì.
Alfredo, il cameriere marocchino (in realtà ha un nome impossibile), mi riserva sempre il solito tavolo, all’entrata sulla sinistra.
« Dottore il solito?» mi chiede con amichevole cortesia.
« Sì, un espresso ristretto, un cappuccino e due brioche. Mi raccomando bel calde!»
Il mio è un rito quotidiano che si accompagna ad un pensiero costante:
« Cosa penseranno di me, o meglio, chi sia davvero io ai loro occhi, vista l’uniforme manageriale?»
Quello che so davvero è chi sono diventato ai miei occhi: un fallito. Uno non riuscito. Un fallito di nome Antonio Carrisi,origine calabrese e una bella presenza.
Mi sono diplomato per grazia ricevuta e sotto ricatto dei miei genitori. Ragioniere. Il primo biennio sono stato promosso dietro compenso e un motorino. Gli altri due anni successivi mi sono guadagnato due viaggi all’estero e per il diploma ho avuto in regalo una fatiscente Fiat Uno accessoriata con sedili in stato di decomposizione e un motore fire di tutto rispetto.
Fino alla bella età di trent’anni mi sono cimentato in mille mansioni. Giardinere, commesso, rappresentante della Folletto, della Tupperware, di miracolose creme d’alga guam. Insomma sempre circondato da miriadi di casalinghe assatanate. Con guadagni esigui sperperati in acquisti di preservativi e cene a lume di candela. Dato il mio aspetto fisico, il seguito femminile era a dir poco più che apprezzabile. Mi sono finto esperto dj in una discoteca di Pizzo Calabro, di proprietà di noti mafiosi locali. Fino al giorno in cui mi hanno sbattuto fuori a calci nel sedere, solo perché flirtavo platonicamente con la figlia di uno dei due titolari. Ringraziando sentitamente i picciotti esecutori
del pestaggio per il trattamento riservatomi: avevo rimediato solo qualche contusione e qualche costola rotta. Sempre meglio che una pallottola o in alternativa, diventare cibo per pesci carnivori. Finchè, grazie al Buon Dio e a Berlusconi, mi hanno concesso il cosiddetto prestito d’onore.
Realizzando così l’apertura di un negozio in franchising di una nota marca di abbigliamento per bambini, nel pieno centro di Reggio Calabria. Scegliendo con cura il personale, due procaci commesse, portate a letto dal sottoscritto a due giorni di distanza l’una dall’altra (lo so, sono uno stronzo!).
Attività che si è rivelata subito redditizia, da ogni punto di vista.Quindi mamme, mogli, divorziate: una manna per il sottoscritto. Fino a quando….
Era un giorno di primavera, lei entrò mano nella mano con il suo pestifero pargolo. Lei era Annarita - moglie di Angelo Catricalà - e il nanetto col caschetto biondo, il loro unico erede. Sì, erede di un impero basato sull’import export di ittico congelato. Insomma una cliente speciale. Bella era bella: forme sinuose, occhi neri come la pece sottolineati da una leggera riga di matita nera e una bocca piccola e piena leggermente lucidata di rosa. Colpito e affondato. E la cosa era reciproca a quanto pare.
Il giorno dopo tornò all’ora di apertura. Le commesse sarebbero arrivate di lì a mezz’ora. Il camerino divenne la nostra prima alcova, e per un certo periodo di tempo, il posto più sicuro dove accoppiarci senza remore. La sig.ra Catricalà non esitava ad acquistare quantità industriali di tutine, scamiciati, completini,scarpe. Ogni ricevimento, battesimo, comunione - a cui la signora era invitata - erano occasioni d’incontro che soddisfacevano la mia voluttà ed il mio portafoglio. Fingevamo resi inesistenti, difetti di sartoria, errori di taglia, esaurendo il magazzino dalle merci di scorta e dalle campionature che avrei dovuto mettere in saldo.
Fin qui, tutto procedeva a meraviglia. Se solo non avessimo deciso un sabato di primavera di incontrarci a Capo Rizzuto per passare una meravigliosa giornata al mare, soli io e lei.
Quindi comunicai alle mie due dipendenti che avrebbero dovuto badare loro al negozio, poiché ero in balia di un attacco di ipertensione da stress. Lei, la fedifraga (e grande attrice), finse un improvviso bisogno di ricerca del proprio io, per cui, il povero marito, spaventato dallo stato catatonico- depressivo, in cui versava la moglie, le concesse la libera uscita. Purchè rientrasse verso le diciannove a casa e con un sorriso sulle labbra. Erano ospiti di un ricevimento serale a casa di uno dei più importanti armatori della Sicilia.
Detto fatto, ci ritrovammo verso le undici di mattina a Cala di Luna, una piccola insenatura, metà ombra e metà sole. Lei un semplice abito a fiori e un paio di espradillas con zeppa in corda, in puro stile ascetico e io galvanizzato dall’evento e dalla possibilità di scoparmela a cielo aperto. Dio quanto l’amavo!
Infatti la presi subito, lì… lei appoggiata ad uno scoglio, il viso rivolto al sole, i gabbiani e il cielo e il mare che ci osservavano più azzurri e limpidi che mai. Peccato che, presi dalla foga amatoria, non ci accorgemmo che, un po’ più distante da lì, ci fosse una piccola imbarcazione per la pesca a strascico (che forse aveva confuso il mezzogiorno con l’alba). E un canocchiale puntato dritto verso di noi, tenuto da due mani appartenenti a Salvo Calò, dipendente dell’azienda Catricalà.
Non ricordo altro, solo che mi svegliai pesto e dolorante a casa mia, nudo come un verme sul letto sfatto. E con un biglietto sul comodino: « quando ti ripigli, hai tre giorni per sparire, altrimenti ci pensiamo noialtri, u capisti?».
Non aspettai neanche un giorno. A mezzanotte,intontito dalle botto e dal sonno forzato, presi il treno per Roma. Il buio nascondeva anche i lividi. Da quel giorno scese la notte anche nel mio cuore. Avevo perso tutto.
Caspita è mezzogiorno! Saluto Alfredo e lascio sul tavolino gli ultimi spiccioli che mi sono rimasti. Per un anno ho vissuto di rendita e di ricordi. Esco dal bar e mi dirigo verso quel monolocale di fortuna, al piano terra di un palazzo anni ’50, che mi ha accolto in questo anno. Entro…le pareti scrostate, un letto in ferro battuto, un piccolo lavabo e l’acqua fredda che gocciola dal rubinetto rotto. Mi tolgo la giacca e la ripongo nell’armadio con cura. Accarezzo le mie cravatte:« sì… possono bastare ».
E’ mezzogiorno, di un giorno qualunque, di un giorno seguente a ieri. Alfredo osserva quel tavolo, lì all’angolo. « Chissà dove sarà oggi quel povero matto in giacca e cravatta? » pensa. Intanto fuori un brusio di voci che si alternano - sguardi e gesti diretti verso una porta al piano terra di un palazzo dietro l’angolo:
« un uomo… un uomo si è impiccato!».
Sulla porta un foglio:« dovevo solo ufficializzare la mia morte con l’atto estremo. Non piangetemi, Antonio è già morto ufficiosamente su una spiaggia calabrese, ucciso dalla propria vigliaccheria.».

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