lunedì 5 gennaio 2009

15

La fotografia: testimonianza o arte?

"Il digitale? Non è fotografia"
BERENGO GARDIN
29/12/2008


Gianni Berengo Gardin
Il maestro è sincero. E impietoso: «Il digitale? Non è fotografia». Concede: «Va bene per chi segue lo sport, la cronaca o sta dentro una guerra. È immediato, ma non interessa i collezionisti», non è «fruibile» da chi ami «l'immagine tradizionale, quella che nasce dai sali d'argento». C'è di che rischiare il rogo, nell'era dei megapixel a evoluzione esponenziale. Ma nessuno toccherà il profeta «eretico»: all'anagrafe, infatti, figura come Gianni Berengo Gardin, classe 1930, ligure di Santa Margherita, 150 volumi di immagini all'attivo, firma illustre dell'agenzia Contrasto, premi da riempire un armadio, ultimo il «Lucie Award», che alla prima edizione venne assegnato a Henry Cartier Bresson.

I tempi sono cambiati. E il maestro, che ancora li osserva attraverso il mirino, non se lo nasconde. Il Neorealismo postbellico, figlio di «Life», dell'opera dei fotografi «sociali» mandati in campo per raccontare l'America dalla «Farm Security Administration» sul finire degli anni Trenta, è nel suo corredo genetico: «La fotocamera non è stata inventata per replicare la pittura o la scultura ma per essere mezzo di testimonianza: solo in ciò essa può condurre a un risultato che è anche, intrinsecamente, artistico». Frammenti del tempo di uomini e donne, della società. Sotto i riflettori o negli angoli bui, anche sotto casa. «C'è ancora molto da raccontare, la vita di tutti i giorni, piccole e grandi cose. Ma sia chiaro: non basta la fotocamera, un fotografo cresce in anni di studio, di osservazione dei maestri. La pubblicità dice "non pensare, scatta": io sostengo il contrario». Cartier Bresson sosteneva che una foto fosse «l'allineamento di testa, occhi e cuore».Berengo Gardin, a rischio di «eresia», va per la sua strada: non ama la «moltiplicazione dei generi», lo «slittamento «verso l'immagine che fa trascorrere ore e ore al computer per la cosiddetta postproduzione» di migliaia di scatti. «I galleristi? Rovinano tutto», si infervora. «È un dato di fatto che alle mostre di concettuosi "artisti" della fotografia vadano in un una ventina, inclusi amici e parenti. Alle grandi rassegne sul reportage, quello vero, invece, ci sono le code all'ingresso». Ergo? «La vera fotografia, che racconta e testimonia, è ancora viva, sta benissimo e interessa il pubblico». Forse non altrettanto chi gestisce, da manager, tendenze e rassegne. Nè i concorsi, dove dominano le solite immagini di «bonzi» asiatici e occhioni di bambini in miseria: «Io non sono mai andato in Africa per non cadere nella banalità, in quella che Susan Sontag («Sulla fotografia», ndr) bollava come assuefazione. I dilettanti sperano di recuperare i soldi del viaggio esotico vendendo foto alle agenzie di "stock"...».«Sono comunque un privilegiato», confessa Berengo Gardin, «perchè faccio ciò che amo e mi pagano....». Progetti? «Sto lavorando a un volume su Camogli (le radici liguri...) e a un altro, complesso, sulla Resistenza, attraverso luoghi, storia e persone. Quando scatto provo ancora l'entusiasmo di sempre e sogno di vedere la serietà trionfare sulla frivolezza che oggi domina. Mi piacerebbe che i giovani che seguono questa strada capissero il valore profondo di un "racconto" in bianco e nero. E tenessero il digitale per le "urgenze"...».Il maestro è conscio di apparire un po' «eretico». Ma ha la saggezza dell'età e del mestiere. Non lo dice ma sa che le sue immagini, istanti di vita impressi nell'argento, saranno ancora arte da esporre quando molti «guru» di Photoshop saranno svaniti. In un «bit».

15 commenti:

Catia ha detto...

Ho visto una mostra di Cartier Bresson al Palazzo Reale di Milano due anni fa e sono rimasta affascinata da questo fotografo artista. Adoro le foto in bianco e nero. Mik mi piacerebbe un tuo parere su questo articolo apparso oggi sull'Arena di Verona.

api ha detto...

ma cosa chiami mik.
si starà abbuffando o starà fotografando spiagge marroncine.

api ha detto...

mo' posto il link alla mia amica fotografa!

Catia ha detto...

Brava, voglio interventi mi sembra un bell'argomento.

Anonimo ha detto...

Digitale e arte sono piuttosto incompatibili, I suppose.

Vlad ha detto...

Ahiahiahi...
Ora vado a magnà. Più tardi, dopo il film, magari intervengo; visto che di fotografia, arte e cose simili ecc, qualcosa ci capisco...
Però prima andate quasi tutti a studiare il 'Cortegiano' di Castiglione e ad ascoltare Caccini...

Vlad ha detto...

Eccoci qua, dopo un bel film, 'Stand by me. Ricordo di un'estate' tratto dal romanzo 'Body' di Stephen King.
A proposito di ricordi, ho cominciato ad addentrami fantastico mondo della fotografia da ragazzino, insieme a mio fratello Luca, il più grande di noi tre. Si usava allora una vecchia Voitlander a soffietto del nonno paterno, negativo 6x9. Si tentava di carpire il segreto della luce che impressiona la pellicola, rigorosamente in bianco e nero, provando le accoppiate tra otturatore e diaframma. Prima si esponeva a occhio (e questo ci costringeva ad un faticoso ma utilissimo allenamento) poi con un esposimetro. Quasi da subito venne il momento irresistibile dello sviluppo e della stampa; a contatto naturalmente. La cantina preparata a dovere, la lampadina dipinta di rosso, la tank per lo sviluppo, le vaschette coi òliquidi, le mollette. Che avventura ragazzi!
E libri su libri. Poi arrivò finalmente il momento tanto atteso della prima reflex: una Ashai Pentax MX. Totalmente manuale; anche se giravano già le automatiche, la nostra formazione con il soffietto e la convinzione che il dominio della luce fosse uno strumento irrinunciabile per un vero fotografo, ci facevano guardare all'automatismo come una 'comodità' da turista...
Quante fotocamere sono passate tra le nostre mani da allora! Minox (un prezioso taccuino da viaggio), Nikon, Contax; e poi, presa in prestito nelle occasioni più professionali, anche la regina incontrastata, la mitica Hasselblad (che fa rima con Vlad...).
Anche il laboratorio di sviluppo e stampa si era arricchito, col passare del tempo e con la 'febbre' che cresceva, di un meraviglioso ingranditore Durst M605 dotato di un obiettivo Schneider.
Corredi invidiabili che poi hanno lasciato il posto (anche se la Pentax e il Durst riposano ancora in quella cantina) ad una serie di digitali, acquistate con la convinzione di sempre: c'è la luce, c'è il diaframma per regolarne il passaggio e l'otturatore per stabilire la durata di quel passaggio. E ci sono le lenti dell'obiettivo: la luce passa di li, ed è la qualità di quei vetri ricurvi che si abbracciano amorevolmente l'uno all'altro che determina la purezza delle informazioni destinate ad impressionare la pellicola.
La convinzione di sempre... Uno scatto non è un semplice clik. Ci sono delle regole, c'è la tecnica, c'è la scienza; ma c'è anche un'anima, che la macchina non possiede. C'è un pensiero, il nostro, e un'emozione che la macchina non sa esprimere se ci si affida al caso che consegue all'automatismo.
E quel pensiero cercavamo di affinarlo ed arricchirlo scattando e sperimentando; ma anche guardando ai maestri naturalmente, e leggendo. Mi ricordo di quelle antiche letture che proprio Cartier-Bresson sosteneva che un vero fotografo non ha bisogno di andare in giro con la fotocamera sempre appesa al collo. Un vero fotografo basta che vada in giro con un mirino attraverso cui guardare il mondo, perché il mondo, quello reale, ad un occhio sensibile e allenato, offrirà sempre l'occasione per farsi raccontare.
Il problema della fotografia contemporanea (a parte la questione della creatività, che non è limitata alla fotografia ma a qualunque disciplina legata alla espressione artistica) non risiede nella tecnologia digitale; non sta nemmeno nella contrapposizione tra sali d'argento e pixel. La fotografia che capta informazioni dalla realtà in cui siamo immersi e con cui stringiamo un patto ad ogni scatto, non può essere sostituita da una ricostruzione arificiale al computer.
Se è vero che la cristallizzazione di una immagine attraverso l'biettivo fotografico equivale in qualche modo a catturare l'anima (o una parte di essa) della realtà che abbiamo di fronte, ad ogni scatto si compie un rito che non è pensabile sostituire virtualmente con Photoshop. Il problema però non abita più la fotografia; si sta parlando ora di un altro strumento: il fotoritocco, o addirittura della composizione artificiale di immagini che con la realtà, quindi con la fotografia) non hanno più nulla a che vedere.
E' lo stesso dilemma che si deve essere posto Baldassare Castiglione (guarda caso...) che alla fine del '500 interpreta appieno lo spirito dell'uomo 'nuovo' rinascimentale che vive in completa simbiosi con l'ambiente naturale in cui è immerso, uomo nuovo che affidava alla 'moderna' tecnica, attraverso l'uso della prospettiva, il controllo dello spazio.
Castiglione però non immaginava che un giorno, il dilagare di una tecnologia 'facile' avrebbe illuso chiunque di poter dominare lo spazio acquistando al mercato uno strumento, una sorta di macchina per la 'prospettiva', che non richiedesse la conoscenza delle regole...
Ma qui si apre un altro tema di carattere socio-culturale la cui trattazione occuperebbe l'intero blog per giorni e giorni...

Anonimo ha detto...

Ma Ki Te Vole in olandese:

Maar wie wilt jij?!

All'1.31 circa della notte della Befana non se ne può fare senza.

Domani (cioè oggi) un importante scupp.

PS: Certo Piina che quando apro il blog mi si sbattono in faccia i caratteri MINIMALISTI di MKTV.

Anonimo ha detto...

Che vergogna Vlad, il mio commento demenzial-notturno dopo il tuo profondissimo... da sotterrarsi.

My compliments, lo leggerò al risveglio con l'interesse che merita.

Addio.

Vlad ha detto...

Una dolce notte a te, cara Bianca.
Ora, quasi quasi, me ne vado a caccia di caprioli con l'Hummer...

Vlad ha detto...

Del resto Catiuzza voleva interventi...

Anonimo ha detto...

Dolce... notte?

E chi la sente domani la Pia?

Cerco di calmarmi nonostante la disperazione, bisogna assolutamente far capire ad API che l'incrocio dei nostri messaggi ad orari notturni fu solo una tragica fatalità, caro architetto.

Spero che mi creda, la vedo piombare in Olanda armata dei peggiori propositi e non solo di quelli.

Ho paura, e menomale che il mio fiancé (che russa beato) non c@zzeggia su MKTV alle 2.00 precise della notte della Befana.

Dio mio, aiutami...

Catia ha detto...

Grazie Vlad del tuo meraviglioso intervento.Penso che la macchina digitale e la fotocamera del telefonino diano l'illusione che chiunque di noi possa fotografare davvero. Mentre la vera arte è fotografare in base alle ombre, alle luci, al gusto personale, ad una sensazione, e captare il fascino di un secondo visivo con la conoscenza della tecnica e di strumenti validi.

Anonimo ha detto...

Difficile esprimersi su un concetto così complesso. Ho lavorato per anni con la fotografia sia come fotografa sia come giornalista del settore. Io non so se il digitale sia fotografia oppure no, giuro non so rispondere a tanta determinazione dell'amico Gianni Berengo Gardin (che colgo l'occasione di salutare se dovesse leggermi, se mi riconoscerà non sarà per il mio nome che occulto volutamente, dico però che "il digitale" chiamiamolo così ha ucciso "la Mia" fotografia, quella che per tanti anni ha supportato i miei sogni, le mie notti in camera oscura e sopportato i miei pianti di rulli sviluppati in secondi sbagliati o agitazioni improprie; quella fotografia che ha accompagnato le mie notti insonni riproponendomi immagini dei mali del mondo. Non mi ci sono mai abituata. E' vero che alle immagini ci si abitua Per questo ho sempre creduto al valore delle "Buone immagini", quelle che difficilmente ci vengono passate dai media. Per il resto mi devo convincere che la Fotografia debba andare oltre la sostanza di cui, con cui è prodotta (ma ammiro molto Gianni che ha il coraggio di non farlo), ogni fotografia deve contenere un pezzetto del cuore di chi l'ha scattata, una altrettanta parte del suo sguardo, e la sua sensibilità. La fotografia è assolutamente PENSIERO pertanto dobbiamo stare molto attenti a come la usiamo o guardiamo, insomma a come la fruiamo. Ripeto, non so se l'alogenuro d'argento si presta di più a realizzare un pensiero di un sensore digitale. Forse no. Ma io, adesso, quando riguardo alcuni miei rulli 6x6 (alcuni non ancora sciluppati), ho una stretta alla gola, perchè so che contengono chimicamente il mio pensiero; non riesco a guardare con o stesso affetto le mie macchine digitali, non so esattamente "come" contengano i miei pensieri, sembrano fatti di niente, di pixel immateriali... ma, e sto attenta a come li maneggio e soprattutto non mi chiedo troppi perché, so che in un certo modo posso ancora esprimerli attraverso le immagini.
In fondo anche i pensieri, come i sogni sono immateriali.
LeilaMeriem

Catia ha detto...

Leilameriem grazie del tuo intervento.

Archivio blog